2 ottobre 1988, Gelindo Bordin e l’oro di Seul: la vittoria dell’autostima

Di autostima si parla spesso nello sport, non sempre con precisione. L’autostima non è gonfiare il proprio ego a dismisura, ma saper fare una corretta stima di sé. Sapere esattamente quanto si vale, anche in rapporto agli avversari. Questo, se hai la testa giusta, ti fa migliorare per arrivare esattamente dove puoi arrivare. Il campione è colui che sa esattamente quanto vale in ogni momento e e riesce a dare il meglio di sé in gara.

Se dando il massimo vince, tanto meglio. Se non vince, pazienza. Chi fa così è un vincente, anche se non vince mai. Chi vince casomai è un vincitore. Ma è un’altra cosa. Questo modo di ragionare ti porta a dare il massimo nelle gare più importanti della stagione.

La vittoria di trent’anni fa di Gelindo Bordin alla maratona olimpica di Seul può essere definita una vittoria dell’autostima. Lo si capisce leggendo il libro “Mi chiamavano il professor fatica” del suo allenatore Lucio Gigliotti (che peraltro ha allenato anche Stefano Baldini…). Fin dal loro primo incontro, nel 1985. Bordin aveva già smesso di correre, ma sapeva quanto valeva ed è andato dal più bravo allenatore in circolazione per diventare il più bravo maratoneta in circolazione. Nel 1986 aveva vinto gli Europei, nel 1987 era arrivato terzo ai Mondiali di Roma dietro il keniano Wakiihuri e il gibutiano Salah. “Ma avevamo programmato Seul per vincere”, racconta Bordin nel libro.

Così Gigliotti racconta la gara di Seul.

“Io seguii la gara in tribuna stampa, nel box di Telemontecarlo, facendo la telecronaca con Giacomo Mazzocchi. Eravamo preparatissimi, sapevamo di poter vincere. Wakiihuri e Salah andavano come treni, non solo Gelindo. Anche fra cent’anni mi ricorderò ogni istante di quella maratona. Prima Gelindo che allunga, lo seguono in cinque. Poi restano in quattro. Al km 37 io che dico che la maratona sta entrando nel vivo, che in ogni momento può partire l’azione decisiva. Non faccio in tempo a finire la frase che Salah parte. Accelera, se ne va. Wakiihuri e Gelindo gli restano incollati, ma solo per qualche metro, poi Gelindo si sfila, perde un po’ di terreno. Il keniano resta attaccato a Salah, Gelindo no. Capisce che non è la sua cadenza, rischierebbe di scoppiare.
Perde 20, poi 40 metri. Alle sua spalle c’è Nakayama, il giapponese, che si avvicina. Salah va come un ossesso, anche Wakiihuri perde terreno. Gelindo si volta, per controllare Nakayama: sembra pensare di voler difendere il bronzo.
Al km 40, Gelindo vede che la schiena di Wakiihuri si sta avvicinando. Hanno rallentato, pensa. Ci crede di nuovo. Proprio mentre sta dando l’impressione di difendere il terzo posto, si butta a caccia dei due davanti.

Non è lui che accelera, sono gli altri che rallentano.

Gelo è un orologio. Abbiamo lavorato tantissimo sui ritmi, sappiamo perfettamente qual è l’andatura che può tenere. Wakiihuri è sempre più vicino. Gelindo lo affianca e lo supera, non lo guarda neanche. E’ in quei momenti che ti scatta qualcosa dentro. Salah è lì davanti, a poche decine di metri. Si gira per controllare Gelindo: sbanda. Si gira di nuovo: e sbanda. Quante volte ne abbiamo parlato in allenamento: mai girarsi, perché quello dietro capisce che non ce la fai più, che hai paura di essere raggiunto. Gelindo lo capisce. Va, lo prende, lo passa”.

La chiave della gara, si capisce, sta proprio nel momento in cui gli altri due allungano e lui non li segue. Nello stesso libro, Bordin lo racconta così:

“A Seul, se non avessi avuto la grande capacità di sapermi ascoltare, avrei perso la gara. Non è che ho vinto contro nessuno, anzi. Salah e Wakiihuri erano fortissimi e in gran forma quel giorno. Ma se non fossi stato bravo a continuare con la mia andatura, sentendo tutte le sensazioni, se fossi andato subito dietro a Salah, quando ha allungato, mi avrebbeucciso. Come ha ucciso Wakiihuri”.

Ah, Gelindo Bordin corse quella gara senza cronometro. Lo lasciò proprio a Gigliotti prima di andare a posizionarsi sulla linea di partenza. “Non mi serve, tienilo tu”. Gigliotti non si stupì più di tanto, sapeva già quanta sensibilità avesse il suo allievo sui ritmi. A volte correva le ripetute senza cronometro e faceva esattamente il tempo che doveva fare. Sapeva stimare esattamente quanto valeva, in qualsiasi momento. Autostima.

Bordin ha battuto Wakihuri e Salah perché sapeva quanto valeva.

Sapeva che non poteva rispondere alla loro accelerazione, ma sapeva anche che comunque valeva un tempo che poteva portarlo alla medaglia d’oro. Per questo ci è arrivato. Perché sapeva di valere un oro olimpico già da tre anni, ha fatto tutto ciò che doveva per mettersi in condizione di dare il suo massimo e l’ha dato.

Gelindo Bordin ha firmato la prefazione di “Olimpiche – storie immortali in cinque cerchi”

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