The last dance, ep. 3 – Phil Jackson e Dennis Rodman

The last dance” andrebbe rivisto in continuazione

Andrebbe rivisto per soffermarsi ogni volta su qualche dettaglio. Ciò che ha attirato di più l’attenzione nel terzo episodio è chiaramente la figura di Dennis Rodman. Non tanto per le sue 48 ore, poi diventate 88 ma nel senso di tendente a infinito, se Jordan non le avesse interrotte. A proposito, in oltre dieci anni MJ si era decisamente evoluto: prima si limitava a uscire dalla stanza dove i compagni facevano festini, ora ne interrompe le vacanze. Che Rodman in campo fosse ben altra cosa rispetto a quello che era fuori, lo si sapeva già all’epoca. Le sue doti da rimbalzista non le abbiamo certo scoperte nel documentario, anche se è stato bellissimo vedere come lui stesso ha spiegato il modo in cui analizzava le situazioni e gli avversari. Non solo era alto poco più di due metri, ma praticamente neanche saltava, eppure i rimbalzi erano tutti suoi.

Ciò che mi ha colpito maggiormente è il rapporto con Phil Jackson

Rapporto che definisce una volta in più, se mai ce ne fosse bisogno, la grandezza della sua figura di allenatore. Nel primo colloquio gli fa capire chiaramente chi è che comanda. Di fronte alla richiesta delle famose 48 ore di vacanza ne parla con Jordan, dimostrandosi molto più propenso del suo miglior giocatore a concederle, cosa che poi in effetti fa. Lì mi è tornato in mente il caso di Scottie Pippen, che si era messo sull’aventino all’inizio dell’ultima stagione. Credo si possa essere sicuri che Phil Jackson sapesse benissimo che in entrambi i casi entrambi i giocatori stavano mettendo le proprie “necessità personali” di fronte agli interessi della squadra. E credo si possa essere sicuri che la cosa non gli piacesse, dato che nessuno più di un allenatore ha a cuore gli interessi della squadra. Eppure, nel primo episodio il coach racconta di non essersi arrabbiato con Pippen, nel terzo racconta della concessione fatta a Rodman, coinvolgendo nella decisione Jordan.

I grandissimi allenatori

Questo tweet di Jamal Crawford, tra le tante reazioni dei giocatori di oggi, sintetizza abbastanza bene il concetto. I grandissimi allenatori non sono quelli che vincono sempre (non esistono), non sono “solo” quelli che hanno grande preparazione e grandi idee, ma sono quelli che, oltre ad averle, sanno anche capire i propri giocatori. Attenzione, “capire”, non vuole dire assecondarli. Vuol dire capire come portare le loro doti sempre al servizio degli interessi di squadra. Pippen e Rodman si sono sentiti capiti e sono stati pronti a fare tutto per il loro coach e per la squadra, che non li ha “rifiutati”, anche perché il coach ha “capito” come far accettare le loro situazioni al resto del gruppo. Rodman al primo allenamento dopo la vacanza tira il gruppo, Pippen alla prima partita una volta sceso dall’Aventino gioca benissimo.

Altro che indiani e zen

Phil Jackson è stato uno scienziato della panchina, perché dell’allenare ha fatto una scienza anche umana. I Chicago Bulls sono il suo capolavoro anche più dei Lakers, perché con Bryant e O’Neal il capolavoro psicologico ha retto poco. E il bello è che anche lui non è infallibile. Dietro la scrivania, ad esempio, proprio come Jordan, non si è rivelato all’altezza. Sa allenare e capire i giocatori molto meglio di quanto sappia sceglierli. Per fortuna ai Bulls ha avuto il “cattivone” Jerry Krause che ha scelto quelli giusti, compreso Rodman, dopo aver scelto l’allenatore giusto, cioè lui. E lì torniamo alla riflessione dopo l‘episodio uno e che ogni fotogramma di “The last dance” rafforza ancora di più. Senza campioni e personalità forti non si crea una squadra vincente, ma quanto è difficile creare il giusto equilibrio e farlo reggere su fili sottilissimi.

Curiosità: Dennis Rodman non sapeva “solo” prendere i rimbalzi, ma anche “rompere il triangolo”. Eppure, o anche per questo, Phil Jackson ha voluto ad ogni costo trovare il modo di portarlo dalla parte della squadra:

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