Olimpiche on ice: Dan Jansen, vittoria per Jane

Il ghiaccio della pista puoi tagliarlo con la lama dei pattini, puoi mettertelo alle spalle andando forte, puoi salutarlo quando hai finito. Quando il ghiaccio entra nel cuore, però, non se ne va mai. Dan Jansen ce l’ha da un maledetto giorno del 1988 quando, la mattina della gara dei 500 metri, viene svegliato da una telefonata della madre. “Tua sorella sta molto male, sta per morire”. Ha la leucemia. “Passamela, mamma”. Jane non riesce a parlare, allora parla lui. “Vincerò per te”. Vince spesso, Dan, ha solo 20 anni ma è già alla seconda partecipazione ai Giochi. A 16 anni era già nella squadra di Sarajevo, perché era già diventato più bravo proprio di Jane, una dei suoi otto fratelli, quella che gli aveva trasmesso la passione per il pattinaggio di velocità. Non vince per lei, ma lei non lo vede. E’ morta poco prima della gara in cui Dan, sotto schock, cade alla prima curva. Quattro giorni dopo, quando è in testa nella finale dei 1000 metri, cade invece all’ultima curva. Dan continua a pattinare, continua a vincere, realizza otto record mondiali, ma non c’è niente da fare. Vuole vincere le Olimpiadi, perché è alle Olimpiadi che è rimasta Jane e perché quel giorno a Calgary le aveva promesso che avrebbe vinto le Olimpiadi. Perché anche il destino sa che le Olimpiadi sono un’altra cosa e, quando ci si mette, il destino fa le cose per bene. Nel 1992 ad Albertville è solo quarto nei 500 metri e addirittura ventiseiesimo nei 1000 metri. Non è finito, tutt’altro. Nelle altre gare continua a vincere e a battere record. E’ evidente che, però, il ghiaccio che ha nel cuore lo frena troppo, ai Giochi.

Lo frena anche nell’occasione che il destino gli mette a disposizione dopo solo due anni, perché gli atleti del circo bianco sono stati particolarmente fortunati in quel periodo, dato che dal 1992 finisce la concomitanza tra Olimpiadi estive e invernali, che anticipano un turno e si svolgono a Lillehammer nel 1994. Nella sua gara, i 500 metri, però, è solo ottavo. E’ scivolato, ha toccato il ghiaccio e ha rallentato irrimediabilmente. Troppo deluso, decide di rinunciare ai 1000 metri, gara che, nonostante cinque vittorie nelle ultime otto prove di Coppa del Mondo, non sente sua. E’ un velocista, tiene al massimo fino agli 800 metri, ma spesso perde le gare negli ultimi 200. Ci vuole il team che ha radunato in questi ultimi due anni intorno a sé e che lo segue sempre, per convincerlo a provare. I suoi genitori, Harry e Gerry Jansen, il suo psicologo Jim Loehr e il suo allenatore Peter Mueller (campione olimpico nel 1976). C’è anche un’accesa discussione con lui. “Ok, gareggio, ma niente tattica”. “E invece contentrati sui tuoi ultimi 200 metri”. La finale a 8 si svolge con 4 sfide a 2. Jansen è nella quarta, opposto al giapponese Inoue. I tempi da podio sembrano essere quelli fatti segnare da Igor Zhelezovsky (Bielorussia) e Sergej Klevchenya (Russia), rispettivamente 1:12.72 e 1:12.85. Al secondo intertempo sente la folla urlare e capisce che sta facendo un tempone. Ai 600 metri però, nello stesso punto dove aveva toccato il ghiaccio nei 500 metri, s’inclina troppo. Un altro disastro è vicino. Tutti vedono che sta perdendo ancora l’equilibrio, ancora nello stesso punto. “Non farti prendere dal panico, esci da questa cosa!, mi sono detto” ha raccontato poi. “Stai in piedi!” urla l’allenatore. Resta in piedi, muove le braccia ancora più furiosamente e recupera l’equilibrio, sfruttando un po’ di spazio in più che gli concede la pista rispetto ai 500 metri. Ha però dovuto allungare la traiettoria e quindi ora, agli 800 metri, è in ritardo. Mancano gli ultimi 200 metri, il suo punto debole. Un giro. Lo fa tutto con la lingua di fuori, spinge come mai aveva fatto prima, anzi, come mai nessuno aveva fatto prima in assoluto. 1:12.43, record del mondo e, naturalmente, medaglia d’oro. Lo capisce subito e continua a pattinare alla stessa velocità per un po’, con le braccia verso la folla e con le lacrime che iniziano a sgorgare sul volto, senza ghiacciarsi. Il ghiaccio è sempre nel cuore, ma ora il sorriso è caldo. Come le lacrime. Anche quelle di Robin, la moglie, che piange e corre per abbracciare Dan il prima possibile. Lo trova e gli mette in braccio la figlia. Ha solo un anno, quindi a Calgary e ad Albertville non c’era.

Si chiama Jane.

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