Ponti che tremano, folla che urla, il mondo si unisce: la maratona di New York

(Da Il Romanista del 20-11-2018)

New York ti fa sentire piccolo. Non solo perché è grande, ma perché, tra le dimensioni dei suoi grattacieli, dei suoi ponti e pure dei suoi panini ti fa sentire piccolo. Solo la forza della natura riesce a farla sentire piccola. Succede, ogni tanto. In questi giorni per la neve, qualche anno fa per l’uragano Sandy, che fece saltare la maratona. Per questo l’ultima edizione, dello scorso 4 novembre (proprio come era il 4 novembre sei anni fa), era la numero 50, sì, ma di 49 maratone effettivamente disputate. Altro che neve, c’era il sole due settimane fa, con 7 gradi alla partenza, 13 all’arrivo e il 45% di umidità relativa. Il clima perfetto per correre 42 chilometri e 195 metri. Sempre quelli sono, come in qualsiasi altra maratona. «E allora che ci vai a fare a New York?». Non puoi rispondere finché non ci vai e anche dopo che ci sei andato non è mica semplice rispondere.

Piccolo e grande

Intanto perché New York, oltre a farti sentire piccolo, ti fa sentire grande. Ti senti piccolo, in mezzo a  migliaia di persone che al villaggio maratona non sanno più dove guardare e quasi si scordano di ritirare il pettorale, in fila con altre migliaia quando è ancora notte davanti alla biblioteca da dove parte il pullman che ti porta alla partenza, o alla partenza stessa, sul ponte di Verrazzano, preso tra altre migliaia di persone, il mare e il cielo.

Però Frank Sinatra sembra cantare per te. «These vagabond shoes / are longing to stray / right through the very heart of it / New York, New York», suona più o meno così: «Queste scarpe vagabonde / hanno voglia di andare a perdersi / fin dentro al cuore di / New York, New York». Suona alla partenza ogni anno e ti fa sentire grande, perché nei primi tre chilometri (sorry, nel primo miglio e mezzo), tutti sul ponte, senti il rumore delle tue scarpe forte come quello di tutte le altre. Come se fossero tamburi che ti danno il ritmo. Il ponte trema. Come te, perché ti aspetta un’avventura che non sai mai come va a finire. Ma è forte come te, perché così ti fa sentire e perché se sei arrivato fino a lì sei sicuramente forte.

Poesia e prosa

Fin dal primo momento, in ogni momento, New York ti fa sentire grande. E importante. Non ti consegnano solo il pettorale, in quel parco giochi che è il villaggio maratona, ma ti spiegano tutti quello che devi fare e non si fermano finché non si assicurano che tu abbia capito. Non ti danno solo la maglia ufficiale, ma prima ti fanno provare un fac-simile per essere sicuri che tu scelga la taglia giusta. Nel pullman che ti porta alla partenza ci sono i bagni, perché il viaggio può durare anche un’ora e mezza e certe colazioni da maratoneti comportano certe necessità. «L’atletica è poesia», scriveva Eugenio Montale, ma è anche prosa. C’è da aspettare prima di entrare nelle griglie di partenza? Ti danno loro acqua, barrette energetiche e sali minerali. Devi buttare via tute e giacche che servono per tenerti caldo fino alla partenza? Ci sono ovunque le postazioni dove gettarli, perché poi andranno in beneficenza.

Spazio e tempo

New York ti fa sentire importante perché non devi pensare a niente se non a correre, perché ti mette  nelle condizioni ideali e riesce a farlo per oltre 52mila persone. Sulle strade ne trovi più di un milione, non ti mollano un metro da quando esci dal ponte fino all’arrivo. E anche dopo, perché se ti vedono in difficoltà per ritrovare amici e parenti fanno di tutto per aiutarti e se t’incontrano per strada o con la medaglia o con una qualsiasi cosa che attesti la tua partecipazione, non fanno altro che complimentarsi. «Congratulations» è la parola che sentirai più di ogni altra, quel giorno e anche in quelli successivi.

Tutto ciò perché chiunque, dal semplice cittadino curioso all’addetto dell’organizzazione, qualsiasi sia il suo compito, si sente profondamente orgoglioso di avere la sua parte nell’evento. E te lo trasmette ad ogni minimo gesto che fa per te. Un applauso, un’offerta di aiuto, un sorriso. Sarà anche un paese particolare, l’America, ma è un posto dove lo sport viene considerato una cosa importante e dove per strada, nelle scuole e negli ostelli trovi strutture di un livello che qui ce lo sogniamo. Ti sembra fuori dallo spazio e dal tempo. Come se stessi sospeso per un miglio e mezzo (Scusate, tre chilometri) sul ponte da Verrazzano. Solo che poi ci rimani, fuori dallo spazio e dal tempo.

Spazio e tempo sono importanti per il maratoneta. Per mesi ti sei allenato contando chilometri (Sorry, miglia), ore e minuti. Eppure sa benissimo che a New York il percorso è ricco di saliscendi e non si va per “fare il tempo”. Non ci riescono i top-runner, figuriamoci gli amatori. Non è Berlino, ecco. E non è un caso se quasi tutti i gps saltano. Pare succeda perché sono troppi tutti insieme. Ma come non credere che sia il segnale di un qualche Dio di Maratona (come la Gazzetta definì Stefano Baldini quando vinse le Olimpiadi) che viene lì a ricordarti che questa è la maratona di New York, è un’altra cosa.

Fin dalla Fourth Avenue, a Brooklyn, il ritmo te lo dà il pubblico. Meglio goderselo e non assecondarlo, però, per non soffrire troppo nel finale.

La gente di Brooklyn è la più entusiasta. Ci sono le bande musicali organizzate e quelle spontanee, i rifornimenti ufficiali ogni tre chilometri e mezzo (Sorry, due miglia) e quelli spontanei: chi prepara hot dog (ma poi ti scrive: «run now, eat later» e intanto li offre a tutti), chi ti offre banane (più adatte) col cartello: «Sai quanto lavoro ci è voluto per farti arrivare una banana gratis?». Ti ringrazio per l’offerta, se non la prendo è perché non la digerisco in corsa, ma tu sai quanto ci è voluto per prepararsi alla maratona? Sì, lo sa, sennò non ti avrebbe offerto nulla. Lo sanno tutti. «Marathoners are fabolous», dice un cartello al quarto miglio, che se giri dalla parte sbagliata ti ritrovi sull’Appia antica. «Run fast or be last», ha scritto sulla maglia una podista che al quinto miglio t’invita a superarla, «Imagine a world without cancer» ha scritto un altro che t’invita a fermarti un secondo a pensare.

Puoi pensare, ma non puoi fermarti. Se solo ci provi, i newyorchesi ti ributtano dentro il percorso. Non è Milano, insomma. Il ritiro non è previsto e infatti la sera, a 9-10 ore dalla partenza, trovi ancora gente che arriva. Il tempo massimo in teoria c’è, ma serve solo per garantire la sicurezza del percorso. Se rispetti il codice della strada e non tagli (col chip se ne accorgono) e arrivi quando arrivi, ti mettono lo stesso in classifica.

Il dio di maratona

Siamo tutti uguali, tutti importanti, di fronte alla fatica. Che è la stessa, sia per l’atleta più evoluto che ha fatto il tempo di qualificazione, sia per il più lento dei tapascioni. Sia per il libero professionista che la fa per la quinta o sesta volta perché può permetterselo, sia per chi ha messo da parte i soldi per realizzare il sogno di una vita. E siamo tutti amati, tutti spinti lungo il percorso. Qualcuno lo fa dal tetto dell’ultimo palazzo, prima del Pulanski Bridge, perché il tetto è ad altezza strada. Siamo alla mezza maratona. Chi è a metà dell’opera, ha ben cominciato.

Il Queens non è meno divertente. Trovi il coro della chiesa cattolica che canta per te accanto a vari gruppi rock, un raduno di amish che ti offrono prodotti del loro orto, un altro di una comunità evangelica che sul cartello ti scrive: «Marathoners: good news, god saves». Il Dio di Maratona ha varie forme, ma veglia su tutti noi. Ti chiama per nome, anzi lo fanno tutti, se te lo sei stampato sulla maglia. E se non l’hai fatto e la tua squadra è «Marathon Club Roma», ti chiamano «Roma!» e da un certo punto di vista è pure più divertente.

Autumn in New York

Solo sul Queensboro Bridge, al chilometro 25 (Sorry, 15 miglia e mezzo) hai l’impressione di essere solo. È tutto in ferro e non possono passarci né macchine né persone. All’improvviso, il silenzio. Fortissimo. Rotto solo dal fiatone, perché la parte in salita è dura. Poi si scende, il passo è corto e il rumore tambureggiante del ponte alla partenza è solo un ricordo. Ma quando la strada scende vedi avvicinarsi la curva della 59/a strada che segna l’ingresso a Manhattan. È una curva ampia, dall’alto è difficile vedere la strada, perché vedi solo una folla incredibile di persone che ti aspetta. E il boato che senti all’improvviso quando esci dal ponte è una delle tante risposte possibili alla domanda: «Ma che ci vai a fare a New York?».

Per sentire quell’urlo sulla 59/a strada. Ti fa venire voglia di piangere o di ridere, o prima una cosa e poi l’altra o tutte e due le cose insieme. Ti dà delle energie che non pensavi di avere per farti tutta la First Avenue, poi il Bronx, che in quel punto è bellissimo, e Harlem, che è rumorosissimo. Un altro paio di ponti e rientri a Manhattan, sulla Fifth Avenue, che costeggia Central Park. Qualcuno lo chiama «il miglio della morte», il 23, perché è tutto in salita. Ma che miglio è? Ma che chilometro è? Ma che importa? Non stiamo più correndo per nostra volontà. Stiamo correndo per ringraziare chi urla e ti incoraggia in qualsiasi modo. Per essere alla loro altezza. Di chi ti spinge nei saliscendi di Central Park (dopo il miglio della morte forse è pure peggio, se uno si ricordasse di avere il cronometro se ne accorgerebbe…), di chi lo ha fatto fino a quel momento e lo farà dopo.

«Tap here for power» dice un cartello che ti invita a dargli un pugno. E il muro del km 35? Crollato. Chi ci ha pensato? Di pensieri ne sono passati tanti altri, sono arrivati da soli, come le piccole nuvole che passano nel cielo. E anche qui ti viene in soccorso The Voice. «Glittering crowds and shimmering clouds», che sta per «Folle luccicanti e nuvole scintillanti». Autumn in New York. Mica inverno a Rieti. Le foglie che cadono dagli alberi di Central Park sono bandiere che sventolano per te. Nei colori dell’autunno ci sono tutti i colori del mondo. Non ci sono muri a nessun chilometro in questa New York. Ognuno rappresenta con orgoglio il proprio Paese e con lo stesso orgoglio si fonde con gli altri. Gli africani non puoi vederli perché sono troppo più veloci. I più chiassosi sono i messicani, i più composti i giapponesi, gli italiani sono più di tutti (a parte gli americani) ma sono sparpagliati ovunque, i francesi sono i più riconoscibili perché hanno un’agenzia sola che li porta lì, i coreani hanno il loro punto di ritrovo nel Queens e hanno preparato tutto: cartelli, trombette e rifornimenti.

Indiani e cow-boy

Un catalano ha la maglia del Barcellona e se lo superi a pochi chilometri dalla fine ti viene da parlargli in greco. In onore della maratona, mica di Manolas. Incroci anche un romanista. E poi ci troveremo come le star (che sentiamo di essere) a bere una birra al Grey’s bar, sede del Roma Club New York, per vedere la Roma che batte il Cska Mosca. Poi c’è uno che corre vestito da indiano, un altro vestito da cow-boy gli dà il “cinque” lungo il percorso, come fanno bambini e anziani a ogni metro. I russi sono tutti concentrati sull’ultima curva, prima di Columbus Circle, dove si rientra in Central Park ma dove ormai è tutto un urlo indistinto, di qualsiasi lingua e di qualsiasi colore, che ti accompagna sotto al traguardo.

È finita, ma la rifaresti subito, dal primo all’ultimo miglio. Anche oggi che New York è colorata di bianco, che in fondo altro non è che l’unione di tutti i colori. Come la maratona di New York. Che ha urlato a destra e a sinistra che non c’è contraddizione tra mantenere la propria identità e stare tutti insieme. Lo diceva un tale che qui viene ricordato pochi metri dopo l’arrivo. «Imagine all the people, living life in peace». Chi ha corso la maratona di New York l’ha fatto, almeno per 42.195 metri. Sorry, per 26.2 miglia.

 

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