Maratona di Milano 2015

Siccome più di uno me l’ha chiesto, lo metto qui. Quelli che non me l’hanno chiesto possono smettere di leggere adesso (compresi quelli che ho taggato), sempre se sono riusciti ad arrivare fino a qui. Io a Milano sono arrivato fino al metro 195 del chilometro 42, e lì ero abbastanza sicuro di arrivarci. Quello che non pensavo era di farlo in 3h08’34”, 7 minuti in meno rispetto alla maratona di Torino fatta a novembre, a sua volta 8 minuti in meno rispetto al precedente record, vecchio di quasi 3 anni. Certo, i tempi fatti in allenamento erano incoraggianti e questa era una condizione necessaria. Ma non sufficiente, perché tra le mille cose che rendono affascinante la maratona c’è anche il fatto che il risultato è tanto scientifico quanto probabilistico. Perché porti il fisico là dove non è pronto per arrivare (pure se fai 100 chilometri, dopo 30-35 certe sostanze finiscono, qualsiasi cosa tu possa inventarti), perché magari il clima è sfavorevole, ti stanchi troppo il giorno prima, dormi poco e male, ti gira male, giri male, sale minerale, carbo-idrato, dis-idratato, caldo, Giovanni (Storti, corre pure lui, ci ha scritto un libro) e ginocchia che fanno Giacomo giacomo. Insomma, è un casino.

Qualcuna di queste cose in effetti era accaduta. Avevo scelto un albergo convenzionato, che prevedeva la consegna del pettorale in albergo. Saltata perché organizzazione e alberghi non si parlano tra di loro e quindi bisogna andare a prendere il pettorale sotto il sole ritardando il pranzo e stancandosi. La convenzione prevedeva anche colazione da maratoneta alle 6.30, ma la tizia della reception casca dalle nuvole. “Per quelli del vostro gruppo c’è il breakfast box”. Cioè il cestino. Mi chiedo quale sia il mio gruppo e rispondo: “Ok, vada per il cestino”. La mattina dopo alle 6.30 alla reception c’è un altro tizio che però cade dalle stesse nuvole della sua collega. “Quelli del suo gruppo hanno già preso i cestini. Però già serviamo la colazione”. Meglio approfittarne, senza continuare a chiedersi quale sia il mio gruppo. La morale della favola la scoprirò il giorno dopo e cioè che tutto quello che si dice sulla maratona di Milano non è vero. In negativo e in positivo. Ti dicono che c’è la colazione e non c’è, ti dicono che c’è il cestino e non c’è ma poi c’è la colazione, ti dicono che c’è il pettorale in albergo e non c’è. Ti dicono di correre con la spugna in mano perché gli spugnaggi non ci saranno e ti sentirai molto ecologico, però poi gli spugnaggi ci sono come in qualsiasi altra maratona. Però per fortuna ti dicono anche che gli automobilisti rompono le scatole ai podisti e invece in 3h08’34”, che possono essere poche ma anche tante (e sono piuma alla fine e ferro durante), non è mai successo.

A colazione ce ne sono tanti altri che evidentemente non fanno parte del “mio gruppo” di cui non sapevo di far parte e che non sapevo esistesse. Uno è alto e probabilmente anche atesino, perché ha la maglietta della marcialonga e s’ingozza di yogurt di fronte allo stupore della moglie/compagna/accompagnatrice/amica, che ha la maglietta della marcialonga pure lei. Una ha una maglietta rosa con la scritta “Rosa va veloce, nessuno supera le donne” e si siede al tavolo con altre tre amiche, tutte e tre con la maglia rosa. Una di loro ha la scritta “Pink runners…” e quel che segue non si legge perché si chiude il giacchetto. Anni di lotte per la dignità delle donne buttati al vento. Le rivedrò tutte, perché fanno la staffetta. A far da contraltare ci sarà una misteriosa squadra che non individuerò ma che ai cambi sentirò incoraggiare al grido di: “Forza, verde pisello!”. Pare corrano per raccogliere fondi per una imprecisata onlus. Gli altri fanno una colazione più seria, simile alla mia, ormai rodata per ottenere i due effetti che deve ottenere: svuotarmi delle cose sbagliate, riempirmi delle cose giuste.

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A svuotamento avvenuto, ci si può muovere. Il cervellotico sistema ideato dall’organizzazione divide le griglie non per numeri (qui da 1 a 100, qui da 101 a 1000, qui da 1001 a 3000, ecc.) ma per il colore della striscetta posta sotto il numero. Nella mia ci sono i pacemaker che non aiutano chi ha problemi di cuore ma chi vuole arrivare in 3h15′. Non mi avrete mai, dico ai palloncini. Ma che ne sai, dico a me stesso. Non li ho mai sopportati, anche quando seguivo o precedevo quelli delle 3h30′, 3h45′, 4′, e oltre. Ho bisogno di seguire il ritmo mio, non quello degli altri. “E ora il saluto del grande campione!” urla una specie di speaker. “Haile Gebre-Lassie!”. Cazzo, stai parlando di una leggenda e non sai neanche come si chiama. Gebreselassie dice qualcosa che non si capisce più per colpa del microfono che sua, l’unica cosa che capisco è “run fast”.

Ci proviamo, Gebre.

I primi tre chilometri però li facciamo piano, la tabella di marcia che è più personalissima del cartellino di Rino Tommasi prevede di percorrere i primi tre chilometri a 4’40” (la media di Torino, precedente record personale, fu di 4’37”) e poi regolarsi in base alle sensazioni e soprattutto al clima. Quindi all’inizio, Gebre mi perdonerai, non vado fast. E infatti sto andando slow. Però al terzo chilometro guardo il cronometro, che dice 13’30”. Cioè 30” più veloce rispetto alla personalissima tabella di marcia (e basta con ‘sta marcia, stiamo raccontando Da Milano, mica Damilano) e quindi a 4’30” al chilometro. Eppure, giuro, io sono certo che sto andando piano. Realizzo quasi subito: se andando così piano sto andando così veloce, è la giornata giusta. Una cosa del genere non l’avevo mai provata, neanche a Torino, quando avevo fatto gli ultimi 10 chilometri a una velocità inaudita, neanche nelle precedenti occasioni in cui avevo battuto i miei record personali, quando fino all’ultimo avevo la paura di spegnermi all’improvviso. Vi riprenderò tutti, dico a quelli che mi superano. Basta che non fai cazzate, dico a me stesso. Per non farle, devo andare un po’ più piano per un po’. A passo Duomo. A Palazzo Marino non c’è Marino ma Pisapia, alla Scala non c’è Pioli perché è della Lazio e perché i sorpassi che subisco adesso li restituisco prima della fine. Andate, andate, tanto vi riprendo. Ce l’avesse chi dico io, la sicurezza che ho io…

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Si lascia il centro e con lui anche i lastroni e le rotaie del tram. Km 11, stradone diviso in due, scopro che le staffette non solo non danno fastidio, come temevo, ma aiutano. Gli staffettisti che aspettano il cambio infatti incoraggiano e fa sempre bene. Sono sempre sotto alla personalissima tabella di marcia anche se ancora non ho imparato a bere ai rifornimenti senza fermarmi a camminare qualche secondo. Meglio così piuttosto che tirarsi addosso sali minerali. Ho fatto 15 km e mi sembra di averne fatti 5. Così non m’ero mai sentito, la personalissima tabella di corsa (altro che marcia, Damilano…) prevede di accelerare e lo faccio, aumentando il vantaggio sui tempi che avevo in testa. Supero il Vigorelli. So’ capaci tutti in bicicletta. Capito Davide Cassani, che ancora non sai che ti arriverò a pochi minuti di distanza e che qualche anno fa, a Firenze, sei arrivato quasi mezz’ora prima di me? Supero la montagnetta. So’ capaci tutti in discesa. Mi supera uno con la scritta “Draghi” sulla maglietta, potrebbe essere un buon riferimento ma per ora il suo ritmo non è il mio. Supero uno che mi dice: “E’ ancora lunga”. “Non è ancora iniziata” gli rispondo. La maratona non inizia prima del km 35,  tutto ciò che c’è prima è riscaldamento. Dopo un cavalcavia si cavalca senza via, perché c’è l’ippodromo. So’ capaci tutti col cavallo. Mezza maratona, 1h35′ e qualcosa. Più di 4′ più veloce che a Torino, quasi 2′ più veloce rispetto alla personalissima tabella di corsa. Sto a metà dell’opera e ho ben cominciato, ma non ci penso poi molto al fatto di stare a metà. Fino a qualche anno fa, al primo chilometro pensavo: “Ne mancano 41”. La prospettiva, a volte, è tutto. “Draghi” sta un po’ più avanti, ma ancora a vista.

A San Siro mi viene in mente il cucchiaio di Totti a Julio Cesar. L’importante è avere sempre pensieri positivi, durante una maratona. Poi succede qualcosa che di solito mi accade sempre. Individuo qualcuno che più o meno va al mio stesso ritmo e lo seguo. Non c’è alcuna contraddizione col rifiuto di seguire i palloncini, perché il ritmo è il mio, anche se quello che mi sta davanti con la sua anonima maglietta blu pensa che sia il suo. Lo seguo, prendo meno vento, penso di meno. Chiamatemi pure succhiaruote, ma è una maratona, non si fanno prigionieri. Dopo 2 km lui si gira due volte, come a dire: “Quando tiri?”. Mai, che domande. Sei pure capace a bere correndo e infatti al km 25 mi stacchi, ma ti riprendo, perché anche se non lo sai stai facendo il ritmo mio, mica il tuo. A un certo punto mi accorgo che siamo in tre, perchè uno ansima regolarmente dietro di me. E se prima eravamo in tre a ballare l’hully galli, adesso siamo in quattro. Il primo della fila infatti è “Draghi”, che al km 28 è stato ripreso.

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Ci nota un tizio in bicicletta e inizia a filmarci col telefonino. E’ uno dei motivatori che l’organizzazione piazza durante il percorso. “Siete bellissimi”, dice. Nessuno se lo fila. Ma lui è un motivatore motivato, mica si scoraggia. Si rivolge a quelli che stiamo superando: “Guardate come sono belli” e figuriamoci se lo filano loro, che stanno soffrendo più di noi. Allora la butta sulla poesia: “Siete 4 petali di una rosa bellissima”. Ringrazia che il fiato

ci serve per correre, va’… In ogni caso, in 4, un “cambio” in testa a questo gruppetto quasi ciclistico (eh, ma so’ capaci tutti in bicicletta) lo do. E se è per questo, da ex succhiaruote ne do anche un secondo. E siccome nessuno me lo dà, mi giro spazientito e… non c’è più nessuno. Non so neanche se ho accelerato o no, so solo che sto ben sotto la tabella di corsa e che anche se le gambe iniziano a far male sento che riesco a spingere. Fatto sta che il tizio blu, “Draghi” e il terzo che ansimava non ci sono più. Forse erano proiezioni della mia mente per farmi andare più forte, forse sto veramente andando forte. Fatto sta che me li sono lasciati dietro e continuo a lasciarmene indietro altri.

Al km 30 guardo bene il cronometro: 2h15’31”. Il conto è fatto presto: se faccio 4’30” al km, finisco in meno di 3h10′. La prospettiva cambia. Mi lascio alle spalle la tabella di marcia e quella di corsa, mi lascio alle spalle i petali di rosa, mi lascio alle spalle tutto. Si comincia sempre a correre per lasciarsi alle spalle qualcosa, ma il bello viene quando ti rendi conto che hai iniziato a correre per raggiungere qualcosa. Succede nella tua vita da podista, lo scopri strada facendo, perché la corsa prima ti aiuta anche a capire da cosa stai scappando, quindi ti rivela chi sei, poi ti aiuta a vedere dove vuoi arrivare. E succede in una maratona, che inizia con alle spalle mesi di allenamento e paura della distanza e finisce con la voglia di godere della sofferenza finale. Sì, perché le gambe fanno sempre più male, ma se rallentassi sarebbe peggio. Però il pensiero di poter raggiungere un risultato che mai fino a poco tempo prima avresti considerato raggiungibile è fantastico, perché non ti fa dimenticare la fatica. Quella non la puoi dimenticare. Ti fa godere della fatica che stai facendo, perché pensi a dove ti sta portando. E questa è una magia che non succede mica sempre, ma che a Milano mi è successa. Forse è pure un insegnamento di vita, perché fatica e sofferenza non vanno mai scansate ma guardate in faccia e usate per superare difficoltà e raggiungere obiettivi. Ma non spingiamoci così in là, fermiamoci al 42,195km, se ci arriviamo.

Certo che ci arriviamo. Km 32, per la prima volta da un bel po’, uno mi supera. “Daje Marathon Club Roma!” fa alla mia maglietta. “Daje Tor Tre Teste” rispondo dopo essermi fatto superare. Semo romani, ma podisti de più. Km 34. Corso Sempione. Ho corso molto più di te, chiunque tu sia, caro Sempione. C’è il ristoro Enervit con integratori fatti apposta per il km 35. Li prendo come se servissero a qualcosa. Km 36, 37, sempre a 4’30” o meno. Fa sempre più male e quindi è sempre più bello. Km 39. “Dai che è finita!”. Succede sempre, a questo punto, un incoraggiamento così stupido. Mi manda in bestia di solito. Stavolta mi fa quasi ridere. E se la prendo così significa che sono davvero forte oggi. Km 40, una keniana col numero F7 zoppica. Fa molto male, ma sto facendo qualcosa che non ho mai fatto prima, posso arrivare a meno di 3h10′. Per tutte le volte in cui non mi andava di correre e l’ho fatto lo stesso, perché ho le forze e l’età per farlo e un giorno non le avrò, perché lo voglio, ho il diritto di arrivarci. Ci arriverò, lo capisco per tutti gli ultimi 2 km, mi applaudono, l’ultimo cavalcavia sembra una discesa e il “Dai che è finita” stavolta è vero. I 195 metri finali, quelli che non calcoli in alcuna tabella né di marcia né di corsa, non me li sono mai goduti così tanto. 3h08’34”, mi dico bravo da solo ed è bello pensare sia a cosa ho appena lasciato alle spalle sia a cosa voglio raggiungere la prossima volta.

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