The last dance, ep.1 – Jerry Krause

“The last dance”, il documentario di Netlix sui Chicago Bulls 1997/1998 riporta in vita lo sport e anche il blog.

Troppo evidente il valore del prodotto per soffermarsi su questo, tanti i dettagli che colpiscono. Uno dei tanti della prima puntata riguarda il general manager Jerry Krause. La sua figura mi aveva già incuriosito all’epoca, quando ogni tanto, nelle cronache, Michael Jordan veniva presentato come “l’unico giocatore dei Bulls non scelto da Jerry Krause”. La narrazione che lo vuole come “il cattivo”, elemento sempre indispensabile per far funzionare una storia, era già iniziata all’epoca e si ripropone fragorosamente fin dai primi momenti del documentario. Che combina benissimo ciò che si vide all’epoca con i contributi dei protagonisti a distanza di anni. Tranne Jerry Krause che, essendo morto nel 2017, non può neanche difendersi.

Ora il punto non è prendere le parti del più debole…

…Krause non lo era e si è difeso benissimo nei suoi anni ai Bulls. Anni in cui quella frase, “unico giocatore non scelto da”, sembrava proprio buttata lì come a porre dubbi sulla competenza. Che non gli mancava. Non poteva scegliere Jordan al draft semplicemente perché non c’era. Che il fiuto tecnico non gli mancasse lo ha dimostrato dopo, perché quella squadra l’ha messa su pezzo dopo pezzo, anche con scelte coraggiose. Ha anche voluto Phil Jackson, con cui si è scontrato abbastanza presto, e prima di lui aveva anche chiamato Tex Winter. Non era solo “uno che veniva dal baseball”, come viene presentato in “The last dance”, ma uno che aveva frequentato e conosceva il basket già da tempo. E il triangolo, o triple post offense, è parte niente affatto secondaria nella costruzione dei Chicago Bulls. Sistema che responsabilizza e dà possibilità a tutti, che Jordan faticò ad accettare ma che finì con l’esaltare tutti.

Semplicemente, Jerry Krause non era né il cattivo né il buono. Perché non c’erano né i cattivi nei buoni.

Lo stesso Michael Jordan aveva le sue zone d’ombra e già sono usciti libri, come quello di Ronald Lazenby, che li hanno esplorati. La riflessione che inizia da Krause, infatti, finisce sulla difficoltà di creare una squadra di altissimo livello. Intanto perché servono persone di altissimo livello e che quindi hanno personalità complesse ed ego decisamente sviluppati. E devono combinarsi in maniera tale da capire che cedere qualcosa di loro stessi finirà con l’esaltarli. La vicenda dei Bulls è esemplare. E’ un’arte di incontri e soprattutto di scontri.

Gli interessi del club con quelli dei singoli.

Jordan non deve farsi male, ma Jordan vuole vincere sempre e rischia di farsi male. Pippen non può chiedere un aumento, anche perché – ma nel documentario non si dice – magari non va occupato spazio salariale – ma Pippen è obiettivamente sotto pagato e sul piatto, in nome della vittoria, ha già lasciato diverse cifre statistiche, oltre che economiche. E il bello è che se la società non avesse avuto la forza di avere una visione più ampia e se i singoli non avessero avuto una tale ferocia, certi risultati non sarebbero arrivati. Forse sono cose che si vedono meglio da fuori che da dentro. Jordan, ad esempio, si sente ancora molto “dentro” e forse è anche per questo che non è stato un grande dirigente.

Gli interessi dei singoli tra loro.

Pippen, proprio il simbolo di colui che si è sacrificato più di ogni altro per il bene comune, alla vigilia dell’ultimo ballo inizia a pensare solo a se stesso. “Ha sbagliato”, dice Jordan. “No”, dice Jackson, che sicuramente sa che ha sbagliato ma sa anche che un giorno ne avrà bisogno per vincere e allora si schiera, anche dopo più di vent’anni, col giocatore. Già, i giocatori, tutti scelti da Krause tranne uno: tutti hanno avuto la loro parte decisiva in quei successi. A tutti loro, almeno una volta, Jordan ha passato palloni decisivi. Li deve ringraziare e loro devono ringraziare lui, che trattandoli in un certo modo in allenamento, li ha sicuramente fatti migliorare. Con un sistema di gioco fatto apposta grazie a Phil Jackson, Tex Winter, a chi li ha chiamati e a chi li ha pagati.

Ecco, i Chicago Bulls sono stati un triangolo non solo in senso tecnico.

E, tra le tante cose che insegna la loro storia, ce n’è una che andrebbe sempre tenuta presente quando si parla di sport di squadra. Che non vince mai uno, anche se si chiama Michael Jordan, anche se senza quell’uno non avrebbe vinto mai. E che capire come costruirla, gestirla e farne parte è tremendamente difficile.

Confessione: Sia nel 1997 sia nel 1998 ho tifato per gli Utah Jazz, perché non mi sembrava giusto che una squadra costruita altrettanto bene, e che non era solo Stockton&Malone, non vincesse almeno una volta.

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