The last dance, ep.9 – Stockton-to-Malone

John Stockton ha parlato. Ha detto più di due parole in fila. Ha detto frasi intere. Ha sorriso. E’ una delle cose che colpisce di più del finale di “The Last Dance”. Già, perché John Stockton non parlava mai. Al massimo qualche monosillabo, tanto che dopo un po’ i giornalisti hanno smesso di intervistarlo. E la cosa incredibile è che non parlava quasi mai neanche con Karl Malone, col quale ha formato la coppia più incredibile mai vista. E’ inutile cercare a una coppia che, nella storia non del basket ma probabilmente degli sport di squadra, avesse un’intesa come quella tra loro due.

Di sicuro nel basket nessuna coppia…

…ha il numero di giochi a due e pick and roll che i due hanno fatto insieme. E la cosa incredibile è che l’hanno fatto nonostante gli avversari sapessero esattamente ciò che stavano per fare. Ogni allenatore che affrontava gli Utah Jazz, preparava la squadra per contrastarli. E non ci riusciva. La prima volta si erano incontrati nel 1984, alla selezioni olimpiche organizzate da Bobby Knight. Erano in mensa, col vassoio in mano, e hanno trovato lo stesso tavolo libero. Si sono scambiati pochissime parole e non le ricordano. Nessuno dei due aveva sentito parlare dell’altro. John, irlandese-tedesco piccolo, bianco e magro, appena uscito da Gonzaga, l’università più vicina a casa sua, dove il padre ha sempre gestito un pub che è rimasto sempre uguale, non conosceva Karl. Gigantesco, cresciuto in una fattoria della Lousiana senza un padre, che aveva un’altra famiglia e si è suicidato quando lui aveva 14 anni.

Frank Layden li conosce entrambi.

Allena gli Utah Jazz, che nel 1984 scelgono Stockton al numero 16. I tifosi reagiscono furenti, lanciando in aria panini e bicchieri di birra per protesta. John (“l’irlandese che beve meno birra al mondo”, citazione di Federico Buffa) invece getta in acqua la spogliarellista che il padre aveva affittato per festeggiare. “Non è opportuno, ci sono i bambini”. Non importa che tu sia cattolico o mormone, certe cose non si fanno. Nel 1985 al numero 13 viene scelto Malone. “Sono contento di giocare nella fantastica città di Utah”, dice prima che gli spieghino che Utah è lo stato e Salt Lake City è la città. Forse ci è arrivato in Harley Davidson.

Entrambi partono come riserve.

La prima volta che Stockton viene chiamato a sostituire Ricky Green gioca 46 minuti in tre partite, tutte e tre vinte. L’anno dopo Malone parte come riserva, ma una volta entra contro gli Houston Rockets e riesce a ricevere un pallone che il suo playmaker fa passare dietro le spalle di Ralph Sampson. Non si sa se è più sorprendente il fatto che il pallone sia passato o il fatto che Malone lo abbia preso. Fatto sta che, “mi accorsi che era in grado di prendere qualsiasi cosa lanciassi in aria”, è una delle poche frasi che dice Stockton. Inizia così un’epopea da divi del cinema muto. Non si parlano perché non ne hanno bisogno. Sono uno nella testa dell’altro. Uno sa esattamente cosa farà l’altro ed entrambi lo sanno un secondo prima degli avversari. Quando poi gli avversari lo imparano, loro lo fanno lo stesso.

Gli Utah Jazz crescono intorno a loro.

In panchina arriva Jerry Sloan, ex giocatore dei Bulls, e il gioco è semplice: giochi a due tra loro e un contributo costante da parte di tutti gli altri giocatori. Sia tra gli esterni (Hornacek, Eisley, Russell) sia tra i lunghi (Ostertag, Carr, Foster) ci sono giocatori che possono dare molto (Tiro, difesa, atletismo, muscoli, sacrificio…) senza occupare le aree d’influenza dei due. Sembravano una squadra più europea che americana. Eppure hanno primeggiato.

A furia di scambi azzeccati ed esperienza, la squadra cresce negli anni.

Stockton e Malone affinano sempre più la loro intesa e va detto che se l’abusato pick&roll oggi è la base di qualsiasi squadra, è anche perché loro per primi hanno insegnato come punire le scelte difensive. Attenzione, anche loro non sono stati perfetti. Anche loro hanno avuto le loro zone d’ombra. Non sono stati angeli e non lo è stato Sloan, a volte hanno giocato sporco sia con gli avversari sia con i compagni, pur sempre nell’interesse dei Jazz.

Non hanno vinto perché hanno incontrato nel loro momento migliore la squadra migliore e cioè i Chicago Bulls. Nella loro versione migliore. Quelli del 1997 e del 1998 erano una squadra completa, senza punti deboli, con Michael Jordan e con gente capace di intervenire al momento giusto in base a cosa servisse in quel momento. Lo erano anche i Jazz, ma con qualcosina in meno.

Però proprio in quelle due finali perse c’è un momento che sintetizza meglio di ogni altro la grandezza di Stockton-to-Malone. Perché nell’epopea della Nba anni 90 c’è “The shot”, certo. Ma deve esserci anche “The pass”.

“The pass”

“Il postino non consegna la domenica”, dichiara una volta Scottie Pippen. Quella domenica è l’1 giugno 1997 e Karl Malone, “The mailman”, sbaglia due tiri liberi decisivi in gara1 di finale. Forse quelle parole che sussurra prima di ogni libero, e che neanche i massimi esperti di lettura del labiale sono mai riusciti a decifrare – come gli allenatori avversari non decifravano i giochi a due con Stockton – quella volta non sono venute bene, chissà.

La domenica successiva, 8 giugno 1997, la serie è sul 2-1 per i Bulls. E’ sempre domenica e, da buon mormone, il proprietario dei Jazz Larry Miller sta giocando in giardino con i nipoti, perché la domenica è il giorno dedicato al Signore. Ma quando viene a sapere che la partita è punto a punto, cede alla tentazione e va al Delta Center.

Stavolta è Michael Jordan…

…che essendo domenica non si è travestito da dio, a sbagliare un tiro libero importante. Chicago è avanti di uno e mancano pochi secondi. Qualcosa di soprannaturale succede subito dopo: John Stockton, il più basso di tutti, naturalmente non è tra i giocatori che devono andare a rimbalzo. Scommette su dove possa finire il pallone e vince. Karl Malone in quel momento già non è più a rimbalzo, ma ha iniziato a correre verso il canestro dei Bulls. Lo sta facendo anche Jordan che, da campione, pensa già a tornare in difesa. Non ha pensato all’errore neanche per un secondo.

Un secondo, due secondi. Malone è quasi arrivato, Jordan pure. Nessuno al mondo, nei secondi decisivi di una finale Nba, proverebbe a far volare un pallone per una minima frazione di secondo su una linea di passaggio dove c’è Michael Jordan, che però è anche l’unico al mondo che sa esattamente che John Stockton lo farà. Lo fa. Fa un passaggio, a una mano, di circa venti metri. Malone vede Jordan davanti a sé, ma è l’unico al mondo che sa che riceverà il pallone, perché sa che Stockton da 12 anni passa solo palloni di cui il ricevitore sappia cosa fare. Stockton sa che Malone è sicuro di riceverlo e non passerebbe mai quel pallone, in presenza di Jordan sulla traiettoria, se non sapesse che il destinatario è il postino.

Michael Jordan forse non immagina tutti questi pensieri o forse sì.

Sa esattamente che Stockton ci proverà, è l’unico, oltre a Malone, a immaginare che possa provare un passaggio del genere. Ed è anche l’unico al mondo di fronte al quale non si dovrebbe mai tentare un passaggio del genere. Infatti vola in cielo per intercettarlo. Ma non ci riesce. Malone riceve, segna, i Jazz vincono nel giorno dedicato al Signore, la serie va sul 2-2.

No, “The pass” non vale meno di “The shot” e la grandezza di Jordan non è solo “The shot”.

Prima di quel tiro decisivo e di bettere a sedere Byron Russell in gara6 del 1998, erano successe un paio di cose. Col punteggio pari, Stockton-to-Malone era diventato Malone-to-Stockton. Palla in post basso al “postino”, che invece di consegnare al canestro, aveva consegnato l’assist per l’uomo che di solito faceva assist a lui. Palla fuori e tiro da tre di Stockton, Jazz a +3. Jordan segna il -1 e i due ci riprovano. Ma Jordan, che ha capito, va a rubare palla a Malone (che è marcato da un altro) da dietro. Il resto lo sapete.

Dopo “The Shot”, cioè dopo che Malone si fa rubare palla, Stockton sbaglia da tre. Qualcosa, insomma, hanno sbagliato. Ma se c’è una vicenda simbolica di quanto sia superficiale affibbiare le etichette di “vincenti” e “perdenti” nello sport, è proprio la loro. Per arrivare a quella partita decisiva, quante ne avevano vinte, decidendole, prima? Basterebbe citare i 39 punti di Malone in gara5 nel 1998, il già citato “The Pass”, il fatto che per metterli in ginocchio nel 1997 c’era stato bisogno del sovrannaturale Jordan di “The flu game” e della mano di Kerr, che è come Paxsons e in The Last Dance ci spiega anche perché.

Sì, “The pass” non vale meno di “The shot”. E Stockton-to-Malone non vale meno di nessuno. Non sono dei “perdenti”, ma degli “sconfitti”. Ed è molto diverso, perché sono stati assolutamente e totalmente sempre dei “vincenti”.

Ed è per questo che la migliore versione dei Chicago Bulls è quella del 1997 e del 1998, quando Jordan salta un po’ meno di prima. Ed è migliore di prima per tecnica e testa, lo ha detto anche lui in The Last Dance. Perché ha battuto dei campioni totali e dei vincenti assoluti.

Ah, una volta Malone e Stockton si sono parlati.

“Dopo la sconfitta con Sacramento nel 2003 – ha raccontato il postino – ci siamo seduti in aereo e abbiamo parlato. Volevo dirgli delle cose che non gli avevo mai detto prma, per non pentirmi di non averlo fatto. Una sensazione che avevo provato con mio padre e con mio nonno, ma loro sono morti, e non volevo provarla con John”.

Ma lui, John, quel giorno del 2003, avrà parlato?

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