La prima sconfitta del razzismo nel basket, la finale NCAA del 1966 tra Texas Western e Kentucky

Oggi gli atleti non hanno problemi ad esprimersi su razzismo e diritti civili. Se vogliono, lo fanno. LeBron James può dire la sua con un click sui social, Floyd Mayweather può staccare in un attimo un assegno per pagare il funerale di George Floyd. Non hanno l’FBI alle calcagna come Tommie Smith e John Carlos, non finiscono in galera come Arthur Ashe, arrestato per aver manifestato contro l’apartheid.

E’ cambiato il potere della comunicazione, ma non è cambiato il potere dello sport, che ha sempre sprigionato una forza intrinseca tesa a far emergere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Anche quando ti costringe a subire delle ingiustizie, perché ti insegna ad affrontarle. Anche prima di chi (o nonostante) chi comandava nella società, anche prima (o nonostante) chi comandava nello sport stesso. E’ uno dei tanti motivi per cui dovrebbe essere considerato un fattore importantissimo.

Un tempo per lottare contro i pregiudizi c’era solo il terreno di gioco.

Su un campo da basket, il 19 marzo 1966, fu dato un colpo fortissimo al pregiudizio che voleva gli atleti afroamericani inadatti allo sport di squadra. E’ vero che già brillano stelle come Wilt Chamberlain o Bill Russell, ma nessuno è preparato a ciò che accade al Cole Field House di College Park, nel Maryland, dove nella finale del campionato NCAA Kentucky sfida Texas Western. I “miners” provengono da El Paso, hanno nel roster sette afroamericani, cinque dei quali compongono il quintetto base. Sono David Lattin, Bobby Joe Hill, Harry Flournoy, Orsten Artis e Willie Worsley. Nella prima fase spesso partiva Nevil Shed. Non sono gli Harlem Globetrotters, non sanno già prima che vinceranno.

Vincono.

Vincono da sfavoriti. Kentucky è una delle università più quotate e ha già vinto il torneo 4 volte. Sono tutti bianchi. E’ una regola in vigore da 36 anni e il tecnico Adolph Rupp non ha fatto eccezione. Tra loro c’è anche Pat Riley. Si becca una schiacciata in faccia da Davi Lattin, qualche anno dopo vincerà titoli NBA allenando Kareem Abdul Jabbar, uno degli atleti più schierati contro il razzismo, e nel 2013 sarà il presidente di LeBron James, vincendo il titolo a Miami. E’ bianco anche Don Haskins, allenatore dei ragazzi del Texas. Li ha presi in giro per l’America e li ha portati ai confini col Messico, imponendo un quintetto base totalmente composto da ragazzi di pelle nera fin dalla prima partita. Già quella è una rivoluzione: la consuetudine è quella di non schierarne nessuno dall’inizio e inserirne uno nelle partite in casa e due in quelle in trasferta. Tre solo se la partita è già persa.

Haskins paga la scelta sulla sua pelle, anche se è bianca.

Riceve lettere minatorie (che è un bel paradosso per uno che allena i “miners”), si ritrova le stanze degli alberghi dove alloggia la squadra devastate, deve portare all’ospedale un giocatore picchiato in un fast food e uno in un bagno. Nel frattempo, però, mentre dalle tribune volano spesso insulti, insegna ai suoi a come controllare la rabbia (Nevil Shed non ce la fa, picchia un avversario e per questo esce dal quintetto) e a trasformarla in energia da mettere in campo per vincere le partite. Le vincono. La semifinale contro Kansas (da dove veniva Chamberlain) dopo due tempi supplemenatari. E poi la finale, 72-65, dimostrazione finale che gli afroamericani non sanno solo schiacciare e saltare, ma anche giocare di squadra.

Adolph Rupp si attacca a tutto.

Parla di un virus influenzale che ha colpito propri giocatori, di arbitri, serata storta e irregolarità da parte di Texas Western nel reclutamento dei giocatori. Cinquant’anni dopo, nel 2006, su questa storia è stato realizzato un film. Josh Lucas e Jon Voight interpretano Don Haskin e Adolph Rupp. Molto utile, per ricordarsi di una delle tante storie in cui lo sport ha avuto la forza di dire cose che la società non riusciva a dire, né a realizzare.

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